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Iraq, cinque anni dopo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



In questi giorni ricorre il quinto anniversario dell'inizio dell'operazione Iraqi Freedom, l'invasione dell'Iraq promossa e portata avanti dagli USA e supportata da un gruppo di paesi che allora fu denominato 'coalizione dei volenterosi' che includeva anche l'Italia. Nonostante tra poco ricorrano anche i 5 anni dalla proclamazione della vittoria dello stesso conflitto che fu annunciata in grande stile da un Bush vestito da pilota a bordo di una portaerei della marina USA appena 3 mesi dopo l'inizio delle ostilità, l'Iraq è ad oggi un paese tutt'altro che pacificato e ogni giorno notizie non proprio confortanti riempiono le prime pagine dei giornali e dei siti di news di tutto il mondo. Siccome ormai quel che è stato fatto è consegnato alla storia, non ci dilungheremo qui su discussioni relative a quali siano state le reali ragioni dell'invasione, torneremo eventualmente su tale tema, tra l'altro tutt'altro che esaurito, in separata sede. Scopo di questo breve scritto è tracciare un'istantanea dell'attuale situazione irachena da un punto di vista politico e geo-politico e tentare di comprenderne le ragioni.

La caduta di Saddam Hussein seguita alla guerra ha di fatto rimosso un sistema di potere che vedeva la minoranza Sunnita controllare le altre due etnie del paese, tra l'altro numericamente più importanti, i curdi a nord e gli sciiti al sud. Il cuore di tale sistema era il partito (unico) Baath e un sistema dittatoriale che vedeva i membri del clan Hussein in tutti i posti di responsabilità, sopratutto nei ruoli chiave di dirigenti dello spionaggio, nel controspionaggio, nella polizia e nelle forze armate. Al vertice di tale dittatura, che potremo definire 'familiare', c'era ovviamente il capo clan, Saddam Hussein stesso. Si badi bene che tale impostazione non deriva da una invenzione estemporanea del dittatore ma da una consuetudine culturale e sociale insita nella società tribale irachena dove il clan è da sempre la cellula alla base della società.

La repressione che l'establishment di Saddam ha portato avanti in 25 anni di dittatura nei confronti non solo degli Sciiti e dei curdi ma anche dei clam sunniti rivali è nota per la sua crudeltà: basti ricordare il bombardamento dei villaggi curdi col gas nervino nell'88, la repressione Sciita dopo la prima guerra del golfo e l'eliminazione dei generi dello stesso Saddam avvenuta negli anni ‘90. Inoltre, se si guarda anche alla storia dell'Iraq post coloniale, si vede come ogni passaggio di potere sia stato caratterizzato da colpi di stato ed episodi 'rivoluzionari'. Si capisce bene quindi come quella irachena sia e sia stata tradizionalmente una società violenta dove chi si è imposto lo ha sempre fatto sopprimendo ogni forma di dissenso. La rimozione, o il tentativo di rimuovere, un tale sistema di potere e di gestione del potere stesso nell'Iraq del dopoguerra a gestione USA è senza dubbio un fatto positivo, ma ha anche rimosso ogni limite di azione a quei soggetti sociali, clan e etnie che fino a 5 anni fa erano sistematicamente oppresse.

Oggi i curdi, gli sciiti e in breve tutti quelli che erano fuori dal sistema del baatismo vogliono vendetta e vogliono essere ripagati di decenni di torture, soprusi e violenze. Questa è in gran parte la ragione per cui oggi l'Iraq è un campo di battaglia. E si badi bene, qui il terrorismo di Al Qaeda non c'entra, se non marginalmente. Questa è una lotta fratricida tra membri di una società violenta il cui codice di comportamento e di 'onore' è così lontano dalla concezione occidentale che noi, e forse gli americani più di noi, stentiamo addirittura a comprendere. La causa quindi del disequilibrio e della guerra civile irachena è prima di tutto endogena. Altri attori esterni sono intervenuti e oggi l'Iraq è una appetitosa torta da spartirsi tra i vicini per quanto concerne le aree di influenza. Iran e Arabia Saudita, che guarda caso sono gli stati campioni dell'islam (sciita il primo e sunnita il secondo), stanno indirettamente tentando di imporsi nel territorio iracheno supportando determinate fazioni piuttosto che altre.

In questo gioco di scontro per interposta persona l'Iran è il più attivo mentre l'Arabia Saudita gioca più in difesa temendo pero fortememente l'espansione dell'Iran sciita. L'Iraq laico di Saddam infatti, nonostante tutti i gli aspetti negativi, ne aveva almeno uno di positivo: era uno stato laico e faceva da cuscinetto tra i due stati più islamizzati e più ideologicamente (in senso religioso) opposti del mondo musulmano. Oggi il cuscinetto non c'è più e questo contribuisce all'instabilità dell'intera regione. Dal canto suo Al Qaeda si è tuffata in una situazione che non poteva che offrire delle opportunità per la causa del terrorismo islamista: possibilità di affrontare sul campo il nemico americano (vera ambizione di martirio per molti aspiranti kamikaze), contribuire alla destablizzazione dell'Iraq e della regione allo scopo di screditare sul piano internazionale gli sforzi americani, usare l'invasione come un pretesto per unire i musulmani contro l'occidente e parlare sempre più di una presunta 'nuova crociata'.

La strada per la stabilizzazione è ancora molto lunga e pare che gli iracheni abbiano ancora bisogno del supporto delle truppe USA per molto tempo a venire. Resta da vedere se il prossimo presidente le vorrà far rimanere ancora per il tempo necessario. Dal punto di vista politico e etnico probabilmente la soluzione più realistica sarebbe una federazione che raggruppi le tre entità etniche dando loro ampie autonomie. Una strategia di questo tipo avrebbe tuttavia dei risvolti negativi come la potenziale cessazione di fatto dell'esistenza dello stato iracheno e un probabile assorbimento di tali regioni da parte dei loro potenti vicini come potrebbe avvenire col sud sciita che diventerebbe un sorta di appendice dell'Iran; cosa che l'Arabia Saudita, che già deve fronteggiare le frangie estremiste sul proprio territorio, non gradirebbe affatto. Il nord curdo invece, una volta divenuto autonomo, potrebbe rinverdire ulteriormente (e anche supportare) le voglie indipendentiste dei curdi turchi, una circostanza tutt'altro che gradita ad Ankara che già da anni sta combattendo duramente il separatismo curdo sul proprio territorio. D'altro canto un Iraq dove queste tre etnie convivano pacificamente appare ad oggi più un'utopia che una realtà, anche se pare che l'amministrazione americana stia continuando a insistere su questo binario. Una federazione che di fatto smembri l'Iraq non solo darebbe più potere all'Iran e infastidirebbe l'alleato turco ma di fatto renderebbe vani gli sforzi fatti fino ad oggi di dare all'Iraq il volto di uno stato democratico e civile che possa essere un alleato e un partner commerciale affidabile nel cuore del medio oriente.

Lorenzo Coco