ITALIANI, POPOLO DI SUDDITI
Inaspettato come una giornata di sole in pieno inverno, arriva in libreria “Lo Stato Canaglia” di Piero Ostellino, edito da Rizzoli. Sull'onda del successo della “Casta”, anche questo volume rimanda in copertina alla “cattiva politica che continua a soffocare l'Italia”, richiamo sacrosanto ai fini commerciali, ma piuttosto riduttivo per un saggio che va ben aldilà della pur ottima inchiesta giornalistica di Stella e Rizzo. Quello di Ostellino è – incredibile ma vero – un best seller liberale (con la “e”) che parla un linguaggio sconosciuto al grande pubblico – quello del liberalismo - relegato fino ad ora alle pubblicazioni di coraggiosi editori come Facco e Rubbettino.
Ostellino già nelle prime pagine prende le distanze da “La Casta”, definendo gli autori “buoni cronisti” ma “costituzionalmente poco inclini all'interpretazione sistemica dei dati”. Stella e Rizzo non ci spiegano in pratica il “nesso causale” che sta tra la natura dello Stato (la causa) e le inefficienze della propria classe dirigente (l'effetto). La Casta diventa così un alibi per il qualunquismo militante che vede - ancora una volta - il dito e non la Luna: gli italiani criticano gli uomini che amministrano il sistema-Stato ma – lungi da loro – non mettono mai in discussione la necessità dell'esistenza di quegli stessi uomini e apparati.
Cosa porta gli italiani a criticare chi li governa senza tuttavia nemmeno pensare a rinunciare ad uno solo dei privilegi che quella stessa politica gli promette? Ostellino lancia un duro atto di accusa contro tutti noi: “voi non siete riformisti perché non siete democratici”. A decenni dalla caduta del fascismo gli italiani ancora danno per scontato che ciascun individuo non sia capace – con le proprie forze e capacità – di provvedere a sé stesso nella ricerca autonoma del proprio bene, non delegando questo percorso a nessuno, tanto meno allo Stato Canaglia. “Antropologicamente un popolo di sudditi, non di cittadini”, davanti agli sprechi, alle inefficienze ai privilegi, agli ordini professionali che bloccano il mercato, ad un sistema scolastico arroccato sulle proprie baronie, ad una sanità sprecona e ad un sistema pensionistico da rivoluzionare, finiamo per essere i soliti “chiacchieroni da scompartimento ferroviario” di sempre: la nostra protesta, becera e populista, ha il suo apice e si esaurisce nel tempo di un caffè.
Ci lamentiamo della politica ma non ne vogliamo fare a meno, odiamo gli sprechi ma non siamo pronti a rinunciare ai privilegi acquisiti, chiediamo cambiamento ma non siamo pronti a riformare radicalmente il sistema sulla base del principio della responsabilità individuale.
Perché dunque, si chiede l'editorialista del Corriere della Sera, gli italiani non sono liberali? Da una parte le colpe provengono da una Costituzione frutto di un brutto compromesso che ha partorito un testo talmente confuso da farci rimpiangere il ben più serio Statuto Albertino. Dall'altra parte perché probabilmente nessuno ha mai provato a spiegare agli italiani cosa fosse il liberalismo.
Le colpe sono da dividersi fra tutti: scuola, editoria, Chiesa cattolica e politica, quest'ultima (paradossalmente) ha le responsabilità minori dato che i governi, come ci insegna Von Mises, sono per loro stessa natura illiberali ma devono essere costretti dalla società a fare politiche liberali. Cosa succede se da questa società – come accade in Italia – non provengono le benché minime pressioni? Accade che dinanzi al liberalismo cresca la convinzione, infondata, che l'interventismo pubblico nell'economia di mercato sia giusto, così come sacrosanta sia l'ingerenza dello Stato nelle nostre vite.
Quali soluzioni dunque? Il contrario di quelle che il Ministro Tremonti sta portando avanti in questi mesi. Un Tremonti che Ostellino critica nettamente: “(...) le tesi del ministro dell'Economia – che hanno l'ambizione di essere innovative rispetto al liberalismo – sono, invece, culturalmente una regeressione al mercantilismo, sconfessato da Adam Smith ne “La ricchezza delle Nazioni”: il tremontismo, frutto di una formazione socialista, si traduce oggi con la nazionalizzazione dei mercati, con l'interventismo pubblico, con politiche social-populiste, riassunte da lui stesso recentemente al Tg1 con le parole: “più Stato, decisamente”.
Cosa significa fare la rivoluzione liberale? Significa innanzitutto l'unica via di uscita ragionevole dalla crisi economica. Una crisi in cui il nostro paese non ha impattato – come tutto il mondo - a fine 2008, ma che si trascina a livello strutturale da ormai molti anni. E' necessaria una riduzione della pressione fiscale accompagnata da una conseguente riduzione della spesa pubblica. Il cittadino deve avere la possibilità di disporre del proprio patrimonio come meglio crede, investendolo, secondo il principio di autonomia personale e responsabilità individuale, nella propria previdenza, nella tutela della propria salute, nella propria istruzione, non delegando allo Stato la propria vita e il proprio futuro ma unicamente la tutela del diritto di proprietà. Dato che i diritti Welfare, a differenza di quelli di proprietà, non sono un diritto naturale ma una garanzia aperta.
Percorrere questa via significa, come teorizzato da un grande pensatore liberale come Isaiah Berlin, contrapporre la libertà “di”, in quanto proliferazione dei diritti nella sua accezione socialista, alla libertà “da”, la libertà negativa nella sua accezione liberale. Libertà da chi? Innanzitutto da chi, quella stessa libertà, cerca di limitarla ogni giorno con tasse, privilegi e burocrazia. Percorrere questa via significa pretendere, in sintesi, che lo Stato ci tratti finalmente come adulti e non come bambini da accudire. “Dio ci guardi – dice giustamente Ostellino – da chi vuole il nostro bene”.
D.M.
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