PER UN WELFARE ANTI-STATALE
In una fase storica, attraversata da molteplici crisi economiche e
finanziarie trasversali, che, su scala globale, possono essere legate in varia
misura e con diverse intensità a fattori anche localissimi (un'alluvione in
Cina, l'eruzione di un vulcano in Islanda, il crack immobiliare negli Usa, la
crisi israelo-palestinese in Medio Oriente, ecc), nel momento in cui
l'accelerazione dei problemi è tale da superare i tempi di adattamento dei
modelli e delle strutture sociali tese a garantire protezione e assistenza per
i più svantaggiati, vale la pensa pensare ancora una volta a quale sia il
"welfare" più adatto per le generazioni future.
Una cosa è certa: appena questa analisi fosse affrontata e, teoricamente, conclusa dai governanti del mondo, la velocità dei tempi e delle situazioni umane sarebbe stata già tale da ritenere le "soluzioni" previste come in clamoroso ritardo e quindi ormai del tutto inutili per le mutate condizioni della futura attualità.
Non fosse altro per proporre il passaggio dal "welfare-State" a una più
moderna (e solo in parte individualizzata) "welfare-Society" (dove
responsabilità personale, libertà di scelta, solidarismo famigliare
comunitario, sussidiarietà, sarebbero le colonne portanti del rinnovato
sistema), vale la pena soffermarsi alcune righe proprio su questo: crederci,
quindi, non è il problema.
Il modello scandinavo ha qualche profilo che merita di essere considerato apprezzabile. Senza tanti giri di parole, non sono soluzioni prettamente socializzate o integralmente liberiste a tracciare le linee utili per il
modello sociale del futuro.
In Italia e in Europa in genere, vi sono troppe regole: il protezionismo e il
sindacalismo sono i due tentacoli del modello sociale imposto all'impresa
italiana e continentale. La complessità delle norme è tale, poi, da consentire
appiglio per ricorsi e sentenze creative di ogni genere, capaci di bloccare per
anni interi settori produttivi. Poche regole, natutalmente chiare al punto da
essere comprese da chiunque e capaci di attrarre, proprio in virtù della loro semplicità, investitori stranieri.
Ciò che impedisce a chi viene dall'estero di stanziare sul territorio della nostra penisola un qualche stabilimento industriale è l'eccessiva normativa in tema di lavoro, ma anche la sua estrema complessità.
La semplificazione burocratica, sul modello dell'impresa in un giorno inserita
nel quadro della manovra finanziaria del governo nazionale quest'anno stesso, aiuterà non poco ad avviare questo difficile cammino verso la semplificazione.
Le produzioni poi non sono più soltanto calaibrate su scala nazionale, ma
nemmeno dicasi su scala locale: ogni azienda oggi deve essere capace di
modellarsi alle esigenze del momento. Perchè allora gli schemi contrattuali
devono essere così rigidi e impostati su base nazionale?
La riforma dei contratti dovrà necessariamente spostare il baricentro verso le singole aziende, che potranno essere più capaci di far rispondere il lavoro dei dipendenti alle mutevoli necessità del mercato. Aziende che non calibrano volta volta la propria struttura alle richieste del mondo esterno rispetto allo
stretto perimetro delle proprie mura, sono aziende ormai destinate a chiudere o a mettere importanti fasce della propria forza lavoro in mobilità o cassa
integrazione.
Alcuni usano il termine "flexurity": flessibilità e sicurezza. In ambito
contrattuale e nella gestione del rapporto di lavoro non è più rinviabile un
modello di questo tipo. Tra la "security" che lo Stato dovrà garantire mentre
si ritirerà dal ruolo di invadente legislatore, la formazione e l’aggiornamento
continuo dei lavoratori, soprattutto di coloro a rischio-posto. Solo attraverso
la loro appetibilità, sarà possibile garantire un più facile reinserimento: non
è l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, ma la reale necessità e la
concreta capacità di quel lavoratore in quel posto di lavoro che rende
possibile che il reintegro sia effettivo e non solo un peso per l’azienda e la
società nel suo complesso.
Il modello scandinavo offre un paracadute per il lavoratore che ha perso il suo posto pari a circa il 90% dell’ultima retribuzione: pare chiaro che lo
Stato può sostenere questo costo solo perchè ha precedentemente investito nella sburocratizzazione e nella costruzione di un quadro normativo capace di far creare alle aziende sempre nuovi posti di lavoro, dove ricollocare in breve
tempo i prestatori di lavoro rimasti senza una propria posizione. Il contraccolpo sociale legato alla drastica riduzione del reddito, verrebbe così
attenutato e anche una breve fase di disoccupazione non avrebbe contraccolpi sul sistema-Paese che, incredibile a dirsi, soffre più per le contrazioni del potere d’acquisto delle famiglie dei lavoratori in cassa integrazione che non delle fluttuazioni dei mercati finanziari.
Andrea Bonacchi
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