SOGNANDO LA SINISTRA LIBERALE
Se è vero che, come affermava Hegel, la filosofia precede di venti anni le altre scienze umanistiche, non si può essere dello stesso avviso riguardo la filosofia politica prediletta dalla sinistra italiana. Se infatti buona parte della destra parlamentare è guarita dal morbo dell'utopica e retrograde (quanto elettoralmente sconveniente) nostalgia nazional-socialista, a favore di vedute liberal-conservatrici, la sinistra figlia dei salotti dimostra, con l'esaltazione del giustizialismo e degli appelli di ritorno ad un egualitarismo becero e livellatore, una tendenza alle anacronistiche politiche staliniste che palesano un arresto dell'aggiornamento culturale di certi politicanti agli anni sessantottini. Allora i tomi più fervidamente studiati e discussi tra i rossi delle facoltà universitarie portavano la firma dell'infima quanto criminale persona di Mao Tse Dong.
Anche in una vasta e complessa realtà politica, ancorché si definisca moderata, quale il Partito Democratico, non mancano correnti ultranostalgiche che al grido "vintage" (per usare un vocabolario caro ai radical chic) di: "ha da venì Baffone", rivendicano la vocazione da pasticcio politico dell'utopica credenza per cui nel nostro paese si possa costituire una sola realtà di sinistra con l'ambizione - non da poco - di stringere sotto un'unica bandiera, e placare i bollenti spiriti, degli estremismi e dei rimasugli della prima Repubblica che donano tinte da matrimonio combinato all'italiana al bipolarismo forzato, voluto costituire dalle forze progressiste dello stivale.
Ma la chiave di volta per comprendere al meglio l'ambiguità di cui è protagonista la sinistra italiota consiste proprio nella corretta interpretazione dei termini destra e sinistra, conservatorismo e progressismo, poiché preservarne il significato più intimo ed autentico rappresenta l'unico strumento di difesa contro una neolingua menzognera che, giorno dopo giorno, plasma la realtà a favore di una certa egemonia mediatica ed innalza bandiere politiche vuote e confusionarie, entità che il pensatore francese Baudrillard definirebbe "simulacri della società postmoderna".
Possono realmente dirsi progressisti dei personaggi il cui unico scopo è affondare il colpo sui temi del giustizialismo bieco da millantatori di piazza, la cui carriera politica è venuta alla gloria sfruttando il potere pressoché illimitato conferito dalla nostra Costituzione alla magistratura, istituzione che - a ben guardare - risulta non solo essere indipendente ma può di sovente prevaricare quelle che sono le volontà del Palazzo? E a quale titolo determinate figure dell'attuale sinistra italiana si fanno portatrici della tradizione progressista occidentale quando, sino alla scorsa legislatura, militavano in partiti il cui emblema era disegnato ad immagine e somiglianza dei sanguinari falce e martello sovietici?
Il progressismo non ha nulla a che vedere con le farneticazioni socialiste, bensì ritrova le sue nobili origini nel liberalismo inglese, contrapposto alle logiche conservatrici della vecchia destra che si erigeva a paladina della preservazione dei titoli nobiliari e dei privilegi di classe. La cultura politica italiana non manca di una figura da cui dovrebbe attingere un polo progressista degno di questo nome: quella figura è Benedetto Croce.
L'ideologia di riferimento del progressismo italiano non andrebbe cercata altrove se non nelle parole del filosofo politico citato.
La distinzione tra liberalismo, dottrina della difesa delle libertà individuali, e liberismo, pensiero fautore delle libertà economiche, è il cardine (tra l'altro figlio della logica anglo-sassone) grazie al quale oggi si possono distinguere conservatori, libertari e progressisti. Questi ultimi tendono ad abbracciare a pieno il liberalismo e ricusare invece la credenza per cui il mercato che si autoregola reca danno alle classi sociali meno abbienti.
Nel dibattito parlamentare del 4 Agosto precedente al voto sulla mozione di sfiducia al sottosegretario alla Giustizia Caliendo, l'Onorevole Franceschini del PD si è voluto far bello elencando le prodi imprese dei governi di destra da lui definiti conservatori, attualmente in carica nei più disparati paesi dell' Unione, contrapposti ai programmi vertenti sull'affarismo e sul clientelismo che a suo dire contraddistinguono il polo destro italiano. Ma se il segretario del Partito Democratico desidera per la sua fazione e per il paese dei rivali dalle visioni moderne e di respiro europeo e considera la maggioranza governante indegna di essere definita conservatrice, perché non prova in primo luogo a convincere i suo compagni (non c'è appellativo più adatto) che il muro di Berlino è crollato più di trent'anni fa?
Daniele Venanzi
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