I miei pensieri sono ad una svolta
Avevo sentito quel nome, Welby, risuonare da qualche giorno, avevo già capito che non si trattava di suonerie di cellulari nè di un nuovo presentatore, ma avrei preferito star comunque fuori da un dibattito che intuivo dove mi avrebbe portato a parare. Il comunicato stampa della sua associazione è arrivato anche a noi, ad UT. Dentro c'è la sua lettera, quella scritta a Napolitano. Se non l'avete ancora letta, vi invito a farlo.
Stamattina dalle colonne di QN Marcello Veneziani ci istruisce a dovere tutti sostenendo che quella dell'eutanasia non è questione di cui si deve occupare la politica, perchè troppo privata. Che i politici si dedichino alla cura delle città, conclude il bravo e abbronzantissimo intellettuale-di-destra.
Bene i giardinetti, bene i marciapiedi insomma e bene anche il traffico e bene (mica tanto) pure l'Ici. Ma chi si dovrebbe mai occupare di tutto il resto? I politici fanno il lavoro meno 'lavorativo' e più comodo del mondo: sono pagati per farsi seghe mentali. Privilegio concesso a pochi, quest'ultimo, che almeno potrebbe essere proficuamente tradotto nell'apertura di dibattiti etici e laici che non rimangano parole al vento ma che si traducano in legislazione.
E' interessante notare come nella lettera al Presidente della Repubblica Napolitano (sic!) siano citati i dolori della vita, quelle cose per cui per molti di noi si apre spesso una ferita insanabile. Per Welby la sofferenza da sola rappresenterebbe già un motivo sufficiente per vivere. Scrive: 'Vita è la donna che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata notturna con un amico. Vita è anche la donna che ti lascia, una giornata di pioggia, l'amico che ti delude.'
In questa concezione manicheistica dell'esistenza sia il bene che il male sono degni di essere vissuti. E allora cos'è la condizione in cui si trova Welby? Non è probabilmente nè l'una nè l'altra.
Molti sostenitori dell'eutanasia dicono che una vita così non vale la pena di essere vissuta, tralasciando il fatto che qui non stiamo parlando di vita ma della sua negazione, di non-vita. Nè male nè bene ma un limbo in cui entrambi appaiono ugualmente irraggiungibili.
Parlando di sfruttamento della dignità e dei corpi umani Irving Kristol scriveva che il confine invalicabile è situato in cio che delimita l'oscenità. 'Ed è osceno tutto cio che priva gli esseri umani della loro specifica dimensione umana'.
Riprendendo queste parole forti e adattandole alla nostra riflessione, osceno è anche permettere a qualcuno di non vivere nè le gioie nè i dolori del'esistenza. Non si parla più di sofferenza, si va oltre, si va nei campi (santi), come dice Veneziani, battuti in lungo e in largo dai buonisti per tessera o per facciata di ogni razza, colore e schieramento. Una vita di sofferenza vale la pena di essere vissuta? Forse sì. Ma una non-vita in cui, non solo il concetto di dignità, ma perfino il concetto di male è assolutamente estraneo?
D.M.
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